Edited by Leonardo Bonaccorso, Deputy Executive Creative Director, KIWI
Ti ricordi cosa accadde quando i social apparvero nel mondo della comunicazione? Una svolta epocale. Un cambio di paradigma che travolse agenzie, brand e creativi. Del tutto impreparati.
Nacquero professioni nuove e sconosciute, oggi del tutto comuni. Tipo il social media manager. Mentre alle professioni vecchie si aggiunse un aggettivo.
Il copywriter, ma digital. E poi l’art director, ma digital. Quindi le agenzie, ma digital.
Un modo semplice per distinguere nuove competenze e vecchie abitudini della pubblicità. Per rimarcare la differenza tra quegli spot subiti inermi davanti alla tv e le entusiasmanti prospettive dell’internet. Aperto, partecipato, condiviso.
Ma di tutta quella confusione, di tutta quell’euforia che prometteva un nuovo dialogo con i consumatori, oggi cosa rimane?
Risposta breve: un botto di cose. Perché il mondo è davvero cambiato. Le nuove competenze sono state realmente necessarie. E quella dei social è stata una svolta senza dubbio epocale.
Oggi tutto passa attraverso i social. E se non ci passa, non esiste.
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Ti ricorderai quel celebre interrogativo che diceva “se un albero cade in una foresta e nessuno lo sente, fa rumore?”
Ecco, vale perfettamente anche per descrivere la comunicazione nel 2025.
“Se una creatività della Madonna viene esposta in out of home e nessuno la condivide, fa rumore?”
Il riferimento alla campagna per il lancio della serie Netflix ACAB, a cura di Dude, è palese. Ma gli esempi sarebbero infiniti. Tutto passa attraverso i social. L’attualità, l’intrattenimento, la cultura, il trash. E pure gli stessi altri mezzi di comunicazione: la tv, la radio, i giornali passano attraverso i social. L’unico posto dove sono ancora realmente seguiti da un pubblico.
I social sono il termometro della realtà.
Il loro linguaggio non è più quello di un canale, ma di un’intera società.
Eppure, di quell’euforia dei tempi primordiali del social, c’è qualcosa che mi sembra persa. Qualcosa di fondamentale che non è del tutto sopravvissuto.
Penso a quel fervore rivoluzionario, a quel concetto di “social network” che era qualcosa di simile alla storia di Prometeo che porta il fuoco agli uomini. Uno strumento per le persone, per connettersi, creare reti, collaborare e conversare. Penso a quello spirito democratico, lucido eppure futuristico, che – per esempio – nel 2001 ha ispirato la stesura del Cluetrain Manifesto. Il celebre elenco di 95 comandamenti, scritti da 4 marketer americani, per educare le aziende ad approcciare i nuovi mercati nell’era di internet.
Non serve leggerlo tutto. Il livello dell’attenzione è un’altra cosa che internet ha cambiato per sempre. Probabilmente nessuno è arrivato fino a questa riga di questo editoriale.
Comunque, dicevo, non serve leggerlo tutto. Bastano le prime tre tesi.
1. I mercati sono conversazioni.
2. I mercati sono fatti di esseri umani, non di segmenti demografici.
3. Le conversazioni tra esseri umani suonano umane. E si svolgono con voce umana.
Insomma, ci ricordiamo che i social sono nati per la gente e non per i brand?
Credo che il problema più complesso della comunicazione pubblicitaria sia stato quello di dover passare da una cornice creata appositamente per la comunicazione pubblicitaria – il 30”, la pagina di giornale, il billboard 4×6 – a uno spazio pensato per condividere la vita delle persone. Lo status, il post, il reel, le stories, i TikTok.
E questo, nonostante il social blu sia nato ormai 20 anni fa, rimane ancora il nostro problema più complesso.
Come far parlare un brand sui social?
Ma cosa avrà da dire un brand in una stories?
Ma perché un brand deve pubblicare ogni giorno su almeno tre piattaforme?
Non lo so. Ma ho una mia idea.
E la risposta è proprio collegata a quello spirito rivoluzionario del 2001 e del Cluetrain Manifesto.
I social sono per le persone e nessuna persona vuole il suo feed invaso da messaggi pubblicitari. Se voglio un prodotto, oggi me lo cerco su Google. Vedo le recensioni. Poi i reel degli influencer che l’hanno provato. Trovo il prezzo più basso e me lo compro.
Sul feed voglio altro. Voglio sentire e vedere persone che dicono e fanno cose.
Voglio storie, arte, una battuta da boomer. Qualcosa che mi faccia ridere, ma anche riflettere. Voglio contenuto.
Il fatto è che i brand oggi hanno ancora troppo timore a parlare.
E pensano troppo a parlarsi addosso.
Ti ricordi di Ceres su Facebook?
Sì, oggi mi piace guardare al passato. Però quello di Ceres è ancora l’esempio più lampante di un brand che si ricorda delle persone che stanno dall’altra parte dello smartphone. E con loro ci parla.
Un brand che non ha paura di un target – il suo – che è pure sporco, duro e impresentabile. E per questo è disposto a imparare e parlare la sua lingua.
Gli instant di Ceres erano pura attitude e zero (o quasi) prodotto.
Per parlare sui social, vale ancora la stessa regola:
dimenticati del prodotto, ma mostrami chi sei.
Che sia una serie su YouTube, un Reel, un carousel su Instagram.
La legge è sempre quella: tu, brand caro brand, quanto sei disposto a non mostrare il prodotto nei primi 5 secondi? Ad accettare che il logo sia non sempre perfettamente visibile?
E di più: quanto sei disposto a postare un TikTok del tutto non-sense, come piace alla Gen Z? O a collaborare con creator che non sono esattamente la personas che hai nelle slide del tuo posizionamento?
Quanto sei pronto a calarti nella realtà?
A parlare con le vere persone che ti comprano?
Ecco, alla fine di tutto, penso solo una cosa.
Che poi è la stessa, spero, possa ispirare il lavoro della nostra agenzia.